La vita ci è data una volta sola
Ecco qui. Da bambino, mi sono ammalato piuttosto gravemente: in seguito, questo dato di fatto avrebbe comportato senz’ombra di dubbio l’incapacità di dedicarmi anima e corpo a quello sport eroico e virile che io adoravo (il calcio); ma, più tardi ancora, mi avrebbe offerto la possibilità di sottrarmi al servizio militare e di aspettare tranquillamente due anni per sostenere l’esame di ammissione agli studi universitari. In caso contrario, io, mite e obbediente, sarei stato costretto, sotto la pressione dei genitori e dell’ambiente esterno, a scegliere in fretta e furia un istituto il più facile possibile, non importa quale, pur di prendere una qualunque via. E, a giudicare dalla mia pigrizia mentale di allora e dalla mia condotta sociale, sono sicuro al cento per cento che da me sarebbe venuto fuori un onesto agrimensore o un esperto dell’alimentazione. E invece…beh, certo, un destino né migliore né peggiore di altri, ma non è questo l’oggetto delle presenti ricerche e riflessioni.
Ecco un altro elemento d’indubbia fortuna: sono nato a Mosca. E all’epoca nascere a Mosca era come nascere in una famiglia nobile. Sia per quanto riguarda quelle mille, piccole licenze licenziose che ci erano concesse, sia nel senso di vivere e formarsi nell’unico, enorme conglomerato urbano più o meno europeizzato allora esistente in Unione Sovietica.
Sono nato in un momento ben definito. Beh, è chiaro, tutti nascono in un momento ben definito, ma quel che intendo dire è che il momento in cui fisicamente sono venuto al mondo ha coinciso con un determinato segmento temporale e culturale, una precisa temperie socioculturale e un’atmosfera politica che, con le sue occorrenze, ha facilitato immensamente la mia apparizione ed estrinsecazione concreta in qualità di “operatore culturale”. In altri termini, ho fatto in tempo a vedere (ormai nella sua fase declinante) la celebre epoca – feroce, severa e roboante – dello stalinismo, che ad alcuni fa venire tuttora i brividi, mentre ad altri comunica una grandiosa euforia.
Se i giorni della mia giovinezza avessero coinciso con la sua tumultuosa ascesa, sarebbe stato assai inverosimile che le mie cosiddette ricerche artistiche (e ci tengo a precisare che, in quella situazione, la loro stessa probabilità si riduceva a una scarna percentuale) potessero non dico realizzarsi, ma anche soltanto profilarsi nella mente onesta e retta di un pioniere o di un giovane comunista di allora. Con questo non intendo dire che la mia esistenza sarebbe stata più orribile, drammatica o folle. No. Sarebbe stata semplicemente diversa e a me non avrebbero sottoposto il presente questionario autobiografico, bensì un altro. Magari, più primitivamente, mi avrebbero chiesto quale fosse il mio numero nel campo di lavoro o quanti segni di spunta avessi fatto sugli elenchi dei fucilati. Non voglio affatto dipingere la situazione più drammatica di quanto non sia, mi limito a riportare il ventaglio di possibilità dell’epoca.
Fondamentale è anche il fatto che non sia nato più tardi. I giorni trascorsi nella routine morbida, pervasiva e sfibrante della tarda atmosfera sovietica di nonno Brezhnev – Kutuzov hanno fatto sì che io e il mio organismo rallentato e abitudinario fossimo educati poco per volta e facessimo il nostro ingresso nella cultura abbastanza tardi, anzi quasi scandalosamente tardi, dal punto di vista dell’effettiva età anagrafica. Ma, dal punto di vista di quella culturale, per me questa era l’unica soluzione possibile per non franare sotto il peso di quelle sfide del destino che eccitavano molti, fornendo loro energie aggiuntive, ma che a me parevano quasi insostenibili, poiché richiedevano scelte immediate e inappellabili, comportavano svariati rischi, nonché la necessità di prendere decisioni e di formulare giudizi propri.
Il fatto è che per quasi tutti gli appartenenti alla mia generazione le età biologiche, sociali, culturali e artistiche erano decisamente separate. E se al momento della scoperta della sfera sociale (beh, della scoperta per quanto riguarda tipi così “a scoppio ritardato” e rispettosi della legge come me), la mia età fisiologica era quella di un uomo che comincia a invecchiare e l’età creativa era quella in cui in genere si completa la costruzione della propria mitologia e del proprio sistema personale, quella culturale era per così dire inesistente e quella sociale – adolescenziale. Perciò, il problema di avvicinarmi alla gente (per me, in ogni caso) era soprattutto quello di dare un’impressione che potesse essere non dico armonica, ma quantomeno non catastrofica, di modo che la somma delle mie età disomogenee nel loro insieme mi permettesse di adattarmi al mondo esterno, compensandosi reciprocamente.