Al centro della poetica di Matilde Domestico, nata a Torino nel 1964, c’è un oggetto: la tazza. Che sia di ceramica o di porcellana, intera o a cocci, essa rappresenta il punto di partenza, parla delle relazioni umane, della quotidianità con uno sguardo attento ai gesti abituali, ai riti che scandiscono il tempo delle giornate. Nel percorso di Matilde, apparsa sulla scena artistica italiana all’inizio degli anni Novanta, questo utensile, trovato nei mercatini, recuperato da qualche amico (agli esordi) o scarto dei normali cicli di produzione, è strumento dell’elaborazione di nuovi inesauribili schemi produttivi. Con la tazza l’artista ha costruito combinazioni seriali e armoniche, inserite poi nello spazio (le colonnazze, le arcatazze) nelle quali si sono sempre ritrovati motivi iconici noti (un fiore, un albero, un’arcata…).
Accanita raccoglitrice anche di cocci, di piattini e teiere in porcellana, li imprime in pannelli di legno o di gesso creando bassorilievi o li compone in ‘personaggi’ femminili o maschili, su cui alcune volte interviene con piccoli segni caratterizzanti oppure ancora, ammucchia una tazza sull’altra in equilibrio precario fino ad ottenere colonne oscillanti alte anche tre metri. Questi oggetti non sono più solo cose ma diventano interpreti di un nuovo racconto. In questa operazione di reperimento all’occorrenza di tonnellate di materiale ceramico, ha un ruolo fondamentale la relazione che l’artista ha stabilito nel tempo con l’Industria Porcellane Alberghiere I.P.A. di Usmate Velate (MB), azienda italiana produttrice di candide e levigate tazze di porcellana, che da sempre partecipa e sostiene la realizzazione delle opere.
Come hai iniziato? Ci sono state esperienze fatte nella tua vita che segnano in qualche modo le origini delle tue opere?
Sono diverse le conoscenze che ho acquisito e che poi ho riunito nel mio fare arte. Sin da piccola dipingevo la ceramica ma il fascino per la porcellana è nato dopo l’Accademia, dove mi aveva catturata lo studio delle avanguardie storiche e l’uso di materiali inconsueti, il confronto con oggetti e materiali decontestualizzati da parte di artisti come Duchamp, ad esempio. Ho lavorato come illustratrice per case editrici e amo disegnare i bozzetti di allestimento ed opere, ho seguito corsi di scenografia e vissuto una bellissima esperienza presso il Teatro Settimo, che mi è servita per abitare lo spazio con le mie opere. Un lavoro nasconde sempre un senso più profondo…
Nelle tue opere entra fortemente in gioco l’elemento dello spazio. Realizzi colonne, spirali. Perché hai scelto di ammucchiare le tazze in questa prospettiva verso l’alto?
La colonna rimanda alla storia dell’uomo, dell’arte, all’evoluzione della vita a livello sociale e culturale. Mi fa pensare al sottile e fondamentale ‘gioco degli equilibri’: la colonna sorregge arcate, fa da struttura a costruzioni architettoniche, nonostante possa apparire più fragile rispetto alla possenza delle mura. Le mie colonne di tazze rimandano a questa ambivalenza; sembrano fragili, perché fatte di porcellana, ma in realtà questo materiale si rompe, si sgretola ma non si ‘annienta’ (i principali reperti di tutte le civiltà, ritro-vati a distanza di millenni, sono di porcellana).
Sono stati poi inseriti i cocci, che valore attribuisci loro?
I cocci hanno una loro energia: ho iniziato ad usarli nella mostra ‘Proposte IX’ nel 1994, per l’installazione ‘Stradazza’: avevo creato una strada con tazze e frammenti.
Non è possibile districare, in Matilde Domestico, la componente artigianale, insita nella predilezione per la ceramica, a quella creativa. Il suo stile è inconfondibile qualunque sia il materiale che usa. L’installazione ‘Portami il tramonto in una tazza’, nata dall’amore per la poesia di Emily Dickinson ‘Bring me the sunset in a cup’ (1859), fa addentrare nella ricostruzione della stanza-studio della poetessa creata totalmente con carta manipolata a mano.
Vorrei ora chiederti perché la scelta della carta come materiale per alcune tue opere…
La prima volta in cui ho esposto una tazza in carta è stato ad una collettiva al Museo di Scienze Naturali, ‘Inuit e popoli del ghiaccio’. L’avevo intitolata ‘Irnugusiq’ (2006) che è la traduzione in lingua esquimese. Le tazze di carta bianca si avvicinano alla ceramica.
In merito alla stanza della Dickinson volevo ricostruire, con la carta, gli oggetti che avevano circondato la poetessa nel corso della sua vita. Tale ricostruzione è stata esposta per la prima volta al Circolo dei Lettori nel 2008 con un progetto all’interno delle sale, poi a Genova.
Centinaia di tazze aggregate tra loro, danno spesso origine a sculture ambientali ma in esse è possibile ritrovare un ‘Ambiente Domestico’, intimo e familiare. Colpisce la casualità di una forma rotta, inutile e bella. Colpisce il bianco, colore ad alta luminosità ma senza tinta che racchiude tutti i colori dello spettro solare che diventa una sorta di sfida oltre l’immaterialità dell’aria e dello spazio. L’autrice è in possesso di una poetica assolutamente originale, raffinata, elemento fondamentale in un’epoca di omologazione estetica. Che si tratti di spirali, sfere, fogli di porcellana biscuit che rappresentano piccoli frammenti di pareti (un modo per ritornare all’immagine sulla ceramica, un legame con l’arte vascolare dei greci), la Domestico, con un lavoro semplice, sintetizza il clima di questo lungo momento di passaggio tardo Novecentesco.