Vi sono artisti (pochi) in grado di aprire strade ed esplorare spazi per i quali il solo pensiero analitico si mostra inadeguato: non ipotizzano risposte ma inducono a porsi domande; non propongono soluzioni, ma provocano reazioni; non si limitano ad azzardare spiegazioni, ma rivendicano l’importanza vitale della creatività, della sensibilità, della passione, andando a toccare i nervi lasciati scoperti dalla logica utilitaristica.
Nicolò Tomaini è uno di questi. Il mondo in cui viviamo da alcuni decenni è un mondo in cui attraverso le neotecnologie (o tecnologie della comunicazione, delle reti social, della realtà virtuale) ci stiamo avvicinando velocemente alla realizzazione della più allucinante distopia: un contesto in cui gli uomini vivono separati dalla natura, dal vivente, totalmente ridotti a protesi passive delle macchine. In questo scenario sempre più invasivo le opere di Tomaini arrivano come ceffoni tutte le volte che rischiamo di abituarci a questa idea. In esse il processo con cui i media ci incalzano e ci costringono ad accettare i loro tempi, i loro modelli, i loro diktat, fissati ed enfatizzati, viene messo a giorno rendendo palese la vera natura dell’elaborazione compiuta dalla macchina, il rovesciamento della protesi. Il fruitore-osservatore viene portato a toccare con mano l’aggressione del dispositivo inorganico, automatico, che aspira a prendere progressivamente il controllo della sua vita. E davanti all’opera d’arte ritrova gli stimoli per sottrarsi al ritmo imposto dalle costrizioni della società contemporanea. Così nei suoi lavori più iconici interviene su opere originali (vecchi ritratti o paesaggi), che ricopre in parte per riprodurre l’effetto del caricamento dell’immagine sullo schermo del computer, oppure, con lo stesso intento, riporta su lastre di plexiglass trasparente le immagini completamente sfuocate di noti capolavori, che a volte invece dipinge anche su un vero tablet;