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Appunti

Mimmo Iacopino

PITTURA LATENTE

di Angela Madesani
(dal catalogo Mimmo Iacopino Pittura latente, Galleria Melesi, feb-apr 2025)

Quando Mimmo Iacopino e Sabina Melesi mi hanno proposto i due titoli possibili per la mostra Quasi pittura o Pittura latente, non ho avuto dubbi.

Quasi pittura, infatti, non prevede la pittura, è un avvicinamento, certo, ma non è ancora tale. Mentre Pittura latente prevede la pittura. Latente è il participio presente del latino latere, stare nascosto. Bisogna mettersi solo nella condizione di scoprirla, di farla emergere: è compito dell’artista ma anche di chi guarda.

Mi pare di potere affermare, senza timore di smentita, che sin dai suoi primi anni di cammino nell’arte, Mimmo Iacopino sia andato a cercarla, a stimolarla trovando un linguaggio che ha fatto suo e che lo rende immediatamente riconoscibile. Il suo è un cammino fatto di piccoli passi, di scoperte, di umiltà, di tanto lavoro per raggiungere il risultato voluto.

Da bambino vive a Baggio, al confine ovest di una Milano complessa, in lotta. È curioso, attento, ha voglia di muoversi. Da ragazzo, a sedici anni, arriva nello studio fotografico in cui incontra quello che considera il suo maestro, Armando Bertacchi e Fabio Cirifino, che stava fondando con altri Studio Azzurro.

Si faceva pubblicità in maniera diversa da quanto si era fatto sino a quel momento, si costruivano set, bisognava arrangiarsi, inventare e il giovane Mimmo viene subito messo alla prova. Il gruppo di Studio Azzurro lo coinvolge anche nel suo primo film, Facce di festa (1980), girato nell’arco di poche ore l’anno precedente. Il ragazzo fa la parte di se stesso.

Il mondo che sta imparando a conoscere lo affascina, lo seduce, lo spaventa, ma capisce che ci vuole stare.

In quell’ambiente conosce un ragazzo come lui, Riccardo Gusmaroli. Insieme, nel 1985 fondano uno studio fotografico in via Vignola, una traversa di via Ripamonti. Milano sta cambiando, con una formula abusata, sta diventando una città da bere, da consumare. Ma Iacopino non si monta la testa, lavora a testa bassa alle sue foto in cui inserisce il colore. Certo sono foto a colori, ma il colore viene anche aggiunto con escamotages, polveri, pigmenti, fondali: sono costruzioni delle immagini.

A un certo punto entra in scena Franco Toselli, che inizia a interessarsi al lavoro dell’amico Gusmaroli. Iacopino lascia passare del tempo e nel 1996 mostra al gallerista le sue piccole sculture di carta, vengono subito battezzate Germogli, siamo di fronte a una dimensione embrionale, di trasformazione, di in fieri. Toselli ha l’occhio molto lungo e l’anima capace di leggere. Iacopino è alla ricerca di qualcosa che lo soddisfi, sente che gli manca un pezzo. Un giorno in un centro commerciale, vede un espositore di metri colorati, quelli che si usano in sartoria, ma anche a casa. È come un’esplosione mentale, ne compra alcuni, comincia a montarli sulla tela. È l’objet trouvè di duchampiano rimando che lo attanaglia. È il suo. Da quel momento, siamo intorno al 2000, ci lavora instancabilmente, ma non esclusivamente.

Toselli scrive un pensiero lapidario: Iacopino cuce l’abito per la tela. Entrano, quindi, in scena le trecce per il cucito, le bindelle, i nastri, i metri di diverso colore, tutto alla ricerca della pittura, è una tensione continua.

La sua strada non è quella canonica dell’olio, dell’acrilico, è altro, che tuttavia lo porta al colore con diverse implicazioni. Il colore è determinante, è un’aspirazione quotidiana.

In tutto il suo lavoro in questa direzione, che ormai data venticinque anni, c’è sempre stata la nostalgia della pittura. La sua è come un’imitazione che si ripete nel corso degli anni, come in musica. È un lavoro paziente, lento, di costruzione, quasi una pratica, una ritualità che lo vede impegnato ogni giorno con la gioia del fare. L’atteggiamento di Iacopino non è mentale, filosofico, costruito; il suo con la materia, con i materiali è un rapporto di pancia, forse di sentimento, spesso una sfida come nei tre grandi lavori realizzati appositamente per la mostra.

È un tentativo di vestire e di misurare il mondo, la tela è il suo supporto precipuo. Ma nel suo gioco entrano a fare parte parecchi elementi del quotidiano. Nessuna preziosità ricercata. È l’artista stesso che rende prezioso ciò che è venale in un percorso fatto di ricerca del nuovo, che, tuttavia, deve essere strettamente e coerentemente collegato con quanto ha già fatto.

Due sono dei tondi, una forma che lo affascina nella sua complessa finitezza, ma che spesso lo mette in difficoltà. 90 (La paura) è costruito, partendo dal centro, con i numeri di legno della tombola. Si inizia da quel particolare numero e a esso si arriva. Gli altri sono posti senza ordine gerarchico, è un omaggio alla Smorfia napoletana, un mondo a sé. Nessuna velleità antropologica piuttosto la gioia della costruzione.

Il secondo lavoro nero, Costellazione dominante, con un rimando al cielo stellato, è costruito con le tessere del domino, il titolo si rifà a un classico della cinematografia di fantascienza, che Mimmo ama particolarmente, Blade Runner del 1982. Un mondo che oggi è più vero del vero. Il sottotitolo è Al largo dei bastioni di Orione in fiamme, è la frase del replicante che non vuole andarsene, non vuole morire. L’opera al nero rimanda alle atmosfere scure e piovose di quel film di Ridley Scott che ha vinto l’Oscar per i migliori effetti speciali. Il domino è la casualità della vita della quale nessuno è padrone sino in fondo.

La terza opera è intitolata È il mio turno (Attesa) ed è costituita dai pezzetti di carta bianca con il numero rosso stampato sopra, che vengono espulsi da quelle curiose macchine che in ogni supermercato stanno accanto ai banconi della gastronomia, della panetteria. Il numero è spesso presente nei suoi lavori perché è nella vita di ciascuno, nello scorrere imprevedibile del tempo che ci è dato.

Sono come freccette con una linguetta al centro, linguetta che l’artista ha alzato come in un volo. L’attesa è un’altra condizione esistenziale. Ma attesa è anche dedizione, applicazione così per la ricerca di Mimmo Iacopino.

Viviamo aspettando: di crescere, di coronare un successo, di andare in ferie, che arrivi la domenica o l’amore e intanto il tempo passa inesorabile.

CHIMERE E…

di Simona Bartolena
(dal catalogo Mimmo Iacopino CHIMERE E…, Galleria Melesi, set-nov 2019)

In un’epoca convinta di vivere con e per le immagini ma che in realtà le immagini le tradisce sistematicamente, prestando loro pochissima attenzione e declassandole alla rapidità di uno sguardo a instagram dal piccolo schermo di un cellulare, la fotografia pare chiedere a gran voce un maggior rispetto e una fruizione meno frettolosa e volubile. Mimmo Iacopino, formatosi come fotografo di still life negli ambienti dello Studio azzurro e forte di un passato nella pubblicità e di un presente nell’arte visiva, mette le proprie conoscenze al servizio di un rinnovato interesse per l’immagine: un interesse che si traduce in sperimentazione tecnica e originalità creativa.

 

Nascono così, con questa volontà di interazione con l’immagine fotografica, le Chimere, che già dal titolo svelano la propria identità complessa e ambigua. Chimere, ibridi dunque, strani incontri tra mondi e creature diverse che attraggono la nostra attenzione imponendoci una considerazione adeguata nel tentativo di comprendere ciò che stiamo osservando. Oggetti del nostro quotidiano si tramutano in qualcosa di diverso da sé, assumono nuovi ruoli e nuovi aspetti, destabilizzandoci. Un’azione di natura dadaista, senza dubbio: irriverente, straniante e ironica, come solo un’opera Dada sa essere.

Impossibile non citare tra i possibili riferimenti artisti quali Duchamp o, ancor di più, Man Ray, e tutti gli artisti che hanno usato il fotomontaggio e la trasformazione dell’immagine fotografica con esiti che tendono alla surrealtà, che giocano con le nostre certezze sovvertendole, che si divertono con il dato reale stravolgendolo pur mantenendone la riconoscibilità.

 

Ma quelli di Iacopino non sono né fotomontaggi né operazioni in Photoshop. E proprio qui sta la vera originalità della ricerca di questo artista che non ha mai perso di vista la coerenza di un percorso ben calibrato e sempre molto pensato. Per le sue Chimere Iacopino prende la via della polimatericità, introducendo elementi tridimensionali, nella bidimensionalità dell’immagine fotografica. Sono materie che appartengono al suo mondo, presenti da sempre nella sua produzione artistica: rasi, velluti, fili da cucito e da ricamo. Nato nell’era della camera oscura, Iacopino ama ancora pensare alla fotografia come a qualcosa che ha a che fare con la chimica, con l’odore degli acidi, con la fisicità della carta stampata. Ecco quindi che la materia entra a gamba tesa nell’immagine, donandole valori tattili, irresistibili richiami sensoriali, quasi di ascendenza Munariana. Per le sue Chimere, Mimmo ripesca i propri scatti del passato, li riguarda con occhi nuovi, li trasforma, dandogli una nuova forma, un nuovo senso, una nuova vita. L’ironia lieve, mai aggressiva, trionfa in queste opere forti di un ostentato désengagement, surreali ma non inquietanti, che trovano la propria ragione di essere in questa risoluta volontà di opporsi alla memoria bidimensionale (come la definirebbe Ugo La Pietra) del digitale e aprire possibili orizzonti creativi per l’immagine fotografica, sottraendola all’effimera, frettolosa e inconsistente fruizione di cui oggi essa è costantemente vittima.

MISURA ALTRA

di Francesca Brambilla
(dal catalogo Mimmo Iacopino misure morbide, Galleria Melesi, ott-nov 2013)

Misure morbide. Titolo ed elemento caratterizzante della mostra, la “misura” di Iacopino (morbida) è una misura altra.
Non è una convenzione, una misura universalmente riconosciuta, una matematica operazione d’analisi: non indica, come nella geometria descrittiva, la dimensione lineare o angolare, come in metrologia il risultato dell’operazione di misurazione, né è la misura della musica, quel valore che indica un gruppo di note o pause comprese in una durata definita. Quella di Iacopino è una misura personale ed astratta. Una Misura morbida: delicata al tatto, cedevole a una leggera pressione, modellabile, plasmabile, sfumata, graduale, modulabile. Un “linguaggio” personale che diviene con l’atto stesso del fare.

 

La tavolozza di Iacopino è fatta di fili di rame, di mouliné in cotone, strisce di velluto, di raso, metri da sarto, di carta, da banco.
Decontestualizzati dal loro abituale campo d’esistenza i materiali diventano corpi morbidi e lucenti che disegnano profondità, proporzione ed equilibrio compositivo.
I metri da sarto o le bindelle non sono diversi da rasi o da velluti. L’artista non è interessato ai centimetri o ai millimetri scanditi sui metri, ma è il prodotto industriale che lo interessa, l’oggetto stesso e il ritmo intrinseco che ha.

Iniziata la sperimentazione dei centimetri da sarto intorno al 2000, si è appropriato delle misure con estrema naturalezza; il ritmo sincopato della texture si amalgama in un intreccio armonico con altri materiali, colori.

Spogliata la misurazione di tutti i suoi contenuti, dei suoi limiti e di tutta la relatività che gli sta intorno, i metri di Iacopino sono solo soggetto. Un soggetto che gradatamente diventa sempre più protagonista, tanto che in occasione delle due personali del 2002 e del 2003 è lo stesso conte Panza di Biumo ad accorgersi di Iacopino e delle sue “misure”. Entrati a far parte di una delle più prestigiose collezioni d’arte contemporanea, una decina di pezzi tra cui cubi e tele rigorosamente realizzate con centimetri da sarto e metri di carta colorata con pigmenti molto diluiti trovano la loro consacrazione.

 

Sempre più simboliche, quasi iconiche di un fare, le “misure” arrivano per caso, come forse per caso arrivano le intuizioni più geniali: l’artista stesso racconta senza inibizione come, entrato in un negozio di bricolage e trovatosi di fronte a una cascata di metri srotolati appesi ad una parete, abbia avuto una folgorazione letale. Attratto dall’oggetto in quanto tale, a interessarlo è la mera superficie che può essere lucida, opaca, plasticata, a volte di carta o di stoffa cerata.
La “misura” diventa sua: insignisce i metri di vesti nuove per riproporli con un significato altro, nella loro mera apparenza. Ecco allora centimetri da sarto gialli, bianchi, verdi, rossi, bindelle da rilievo bianche e nere. Isolati in alcuni quadri monocromi, i centimetri creano disegni suggestivi divenendo comunque, malgrado tutto, agli occhi di chi guarda, monumenti all’ordine, perché ordinata è l’armonia compositiva di Iacopino.

In Misure morbide per la prima volta assembla nello stesso quadro metri e nastri di velluto e raso. Diversi per morfologia e funzione i materiali coesistono, si valorizzano, si esaltano l’uno a contatto con l’altro. Decontestualizzati dal loro abituale campo d’esistenza diventano corpi morbidi e lucenti che disegnano profondità, proporzione ed equilibrio compositivo.
Attraverso il sottile gioco di incastri ed eleganti stratificazioni di masse colorate, all’alternanza di luci e ombre, fondamentali alla riuscita dell’opera, l’artista dà vita a una infinita produzione di complessi reticoli: “trama orditi”. La trama cambia, i fili si intrecciano, si intersecano, vengono ricomposti, metabolizzati, solo dopo numerosi passaggi l’opera può dirsi compiuta.

 

Con uno spiccato rigore “estetico” ereditato da un passato come fotografo di still life (ex Studio Azzurro) Iacopino conosce bene la luce e usa il suo sapere. Alterna superfici e texture differenti proprio per esaltare i giochi di luce ora assorbita ora riflessa. Naturale o artificiale, la luce diviene parte integrante dell’opera, valorizza il lavoro e ne enfatizza la plasticità.
Con la capacità di portare avanti più ricerche contemporaneamente, alterna forme, sviluppa idee, rielabora quelle già sperimentate, prosegue… Sia nella realizzazione delle raffinate tele monocrome o monotonali, che nelle più provocanti tele colorate, fatte di tinte diverse e contrastate, Iacopino agisce seguendo un progetto fatto di calcolo ma anche d’istinto, il risultato: il ritmo, il respiro, l’emozione del fare pittura.

Proposti per la prima volta nello stesso quadro nell’estate del 2012, misure e materiali morbidi (rasi e velluti) diventano l’epicentro della mostra, filo conduttore del misurarsi dell’artista con il proprio lavoro.

Sperimentati sotto forme e accostamenti differenti i metri si palesano in opere di grandi dimensioni come “Misure morbide Verticali”, bindelle intrecciate a velluti dai toni delicati, in “Totem”, colonna verticale alla quale si accompagnano piccole tele satellite tutte fatte di bindelle di differenti colori, “Metro cubo”, sculture a forma cubica e una numerosa e raffinata serie “Misure morbide” di opere di cm 10×10 o 15×15.

Oltre ai gioielli prodotti in esclusiva sotto forma di collane, a “rompere” l’equilibrio compositivo è “Misura morbida” (molle): costruita con rigore sul supporto della tela e appoggiatasi nella sua genesi al “limite” del telaio, l’opera è stata successivamente liberata dallo stesso telaio per palesarsi in tutta la sua tridimensionalità.

Riprodotta in catalogo di fianco a “Numero Uno” prima opera datata 2000 in cui l’artista sperimenta il centimetro da sarto come materia e colore, “Misura morbida” segna un passaggio, si libera del supporto. Diventa scultura, diviene oggetto, diviene ogni volta in modo diverso a seconda della forma e della superficie che la sostiene, diviene tessuto, stoffa, diviene molle… Diventa simbolo iniziatico nell’iconografia dell’artista, diventa un oltre, diventa il superamento di un limite, quello mentale: Misura morbida… libera… La libertà sta nell’azione: Iacopino ha agito!

Perché non dipingo? Provo a dirtelo, anche se la pittura è latente…

Lavoro con materiali che spesso interagiscono con la luce, vedi il velluto, il raso, il rame, i metalli o le superfici specchianti, la mia ricerca è spesso orientata al rapporto con la luce che hanno questi materiali cangianti, poiché le opere acquistano profondità e cambiano nel momento in cui le si osserva e ci si sposta l’opera interagisce con lo spettatore, è quasi come se cercassi una sorta di chiaro scuro o la tridimensionalità nell’opera, che è tipica della fotografia.

L’immagine fotografica di per sé è piatta, ed è intervenendo con la luce, con il chiaro scuro, che si dona ad essa la tridimensionalità, che è ancora poi quel che i padri pittori hanno fatto per secoli, studiando il rapporto con la luce e trasferendolo sulla tela. La fotografia ne è direttamente figlia. Nella mia ricerca c’è una sorta di pittura latente, o una fotografia latente, una pittura che non c’è, una fotografia che non c’è. Ne rimane una traccia una memoria, quasi una nostalgia. Il pennello del pittore non è il mio strumento, o almeno non lo è più…

 

Mimmo Iacopino