Gianni Cella punta la propria attenzione, con i suoi rilievi plastici e le sue maschere allestite, sul senso di inadeguatezza sempre più crescente nei confronti di noi stessi e degli altri. I suoi personaggi sono l’allegoria dell’insensatezza, dell’immaginazione fantastica, caratterizzata tuttavia da uno sguardo affettuoso e buffo nei confronti della vita che attenua la malinconia.
Spesso le sue opere sono una grottesca e caricaturale visione di volti con un occhio solo, sbuffanti, a forma di stella o asteroide, a raccontare una realtà concreta ma nel contempo “psichica”, che narra di pulsioni nascoste, stati d’animo attraverso un bernoccolo, un occhio solitario, una smorfia. La scelta ci parla del senso destabilizzante della vicinanza con “la gente”, della difficoltosa relazione che viene a crearsi tra noi e gli “altri”, amici o nemici che siano.
dal catalogo Spirito del Lago, 2016, testo di Valerio Dehò
Gli anni attuali non inducono all’ottimismo, nella stessa contemporaneità artistica, prevalgono le tragedie, i drammi, il clima di incertezza sul futuro e su quello che vi potrà accadere. Gianni Cella proviene da un periodo in cui l’arte poteva permettersi una sottile incoscienza e una follia legata alla capacità di mettere d’accordo l’invenzione con il gioco. Le sue sculture colorate e ironiche sono spesso divertenti, nascondono però sempre uno sguardo attento alla società e ai suoi miti e sono una cifra stilistica che gli dà una riconoscibilità ovunque. Il suo universo è composto di personaggi qualunque, spesso sorridenti, strani in quelle loro espressioni fisse quasi stereotipate. I suoi “omini” ricordano quelli di Magritte ma attualizzati dall’edonismo reaganiano degli anni ottanta oltre che dall’eterno sorriso della “Milano da bere”.
Le sue sculture verticali sembrano poi richiamare quei numeri da circo in cui tanti atleti vestiti allo stesso modo, si mettono uno sull’altro a formare una colonna. Salire sulle spalle di qualcun altro ricorda i giochi da bambino anche se la moltiplicazione degli esseri umani è simbolo della società di massa, di spersonalizzazione e di sopraffazione. Cella sembra suggerirci che la nostra identità è definitivamente cambiata: viviamo eternamente e immensamente in una generale felicità anche se che siamo tutti uguali, uniformati in nome di un conformismo che è il gettone di presenza per partecipare allo spettacolo di una società ottimista per statuto.
Lo sguardo dell’artista è apparentemente benevolo, c’è una gioia visiva sorretta dal ripetersi dei simboli, ma lo stereotipo non può sostituire gli individui, la singolarità di ogni persona umana. L’artista ha costruito una visione del mondo di un popolo condannato alla felicità eterna. Siamo noi probabilmente quelli che un tempo si chiamavano i “consumisti”, termine che ormai non si usa più. Quindi dobbiamo rispecchiarci in questo universo sorridente e fumettistico. Spesso però Cella introduce degli elementi dissonanti come dei cactus improbabili o degli esseri non completamente conformi alla genetica. La sua è una vena surreale, cerca il “déplacement”, uno spiazzamento delicato e mai violento, qualcosa che ricorda lo Jacovitti migliore, a proposito di fumetti. Ma questo non impedisce di dire cose importanti, lo scherzo nasce dall’arguzia cioè dall’intelligenza, si possono dire cose importanti anche con leggerezza.
L’universo post pop di Gianni Cella proviene dagli anni ottanta, anni felici ed edonistici per definizione, nel 1983 infatti esordisce con il gruppo dei Plumcake, un insieme di artisti intelligenti e bizzarri, fuori dagli schemi, che nel 2000 si è sciolto. Gianni Cella porta avanti la sua poetica che mette insieme personaggi e cose provenienti dall’immaginario giocattoloso e plasticoso di un mondo allegro. Certo è che spesso lo sguardo è allucinato ma d’altra parte doversi divertire per forza fa questo effetto. Nello stesso tempo Cella diffonde la sua arte accessibile a tutti, opere piccole e grandi, disegni stralunati, la sua idea dell’arte non cerca inutili complicazioni, la sua è la costante ricerca della semplicità di comunicare, senza rischiare la banalità dell’ovvio.
Per questa mostra interamente dedicata allo Spirito del Lago, non solo mette in scena un omaggio al tipico paesaggio di Lecco, ma crea un universo lacustre popolato di personaggi improbabili quanto divertenti. Su di una grande parete ha disposto una composizione di 23 opere che dà il titolo alla mostra, in cui prevale l’azzurro dell’acqua: tanti piccoli lavori che formano una costellazione liquida. I personaggi, tra cui i Gemelli Pollock e i suoi Adamo ed Eva che ben conosciamo, stanno però anche a collegare il tema del lago a quello più in generale dell’acqua come origine della vita. E del resto tutto brulica in questa installazione a parete, gli umani sono attorniati da una serie enorme di mostriciattoli strani e quasi sempre monoculari, a sottolineare un’origine aliena o teratogenetica. In effetti tutti questi esseri guardano verso gli spettatori, le creature del lago ci osservano, forse i mostri siamo noi. I vari serpenti richiamano lumaconi o l’inevitabile Larrie il Lariosauro, rettile lacustre del Lago di Como, ma vi sono anche Angry Birds minacciosi, e altre specie bislacche che popolano un mondo liquido.
Anche gli umani, i nostri progenitori edenici o i vari single disseminati tra le acque, hanno varietà di colori che lasciano intuire variazioni genetiche in forte progresso estetico. Una vera e propria folla si nasconde sotto la superficie del lago, l’acqua è fertile habitat di creature impossibili, di una vitalità che si replica in modo autonomo, secondo regole prese dal caso o da nascoste affinità. Gianni Cella in questo lavoro in particolare rivela la sua capacità narrativa, il suo giocare con le forme e i colori creando un popolo che sembra partorito dai sogni e dalle paure dei bambini. In fondo è un creatore di favole. L’omaggio a Lecco, e il ritorno in una galleria “storica” per lui che vi espose coi Plumcake nel 1994, si allarga ad un popolo occhieggiante e simpatico, ad un puzzle che ognuno può comporre e scomporre secondo la propria fantasia.