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Appunti

Mimmo Iacopino

CHIMERE E…

di Simona Bartolena
(testo per la mostra personale, Galleria Melesi, set-nov 2019)

In un’epoca convinta di vivere con e per le immagini ma che in realtà le immagini le tradisce sistematicamente, prestando loro pochissima attenzione e declassandole alla rapidità di uno sguardo a instagram dal piccolo schermo di un cellulare, la fotografia pare chiedere a gran voce un maggior rispetto e una fruizione meno frettolosa e volubile. Mimmo Iacopino, formatosi come fotografo di still life negli ambienti dello Studio azzurro e forte di un passato nella pubblicità e di un presente nell’arte visiva, mette le proprie conoscenze al servizio di un rinnovato interesse per l’immagine: un interesse che si traduce in sperimentazione tecnica e originalità creativa.

 

Nascono così, con questa volontà di interazione con l’immagine fotografica, le Chimere, che già dal titolo svelano la propria identità complessa e ambigua. Chimere, ibridi dunque, strani incontri tra mondi e creature diverse che attraggono la nostra attenzione imponendoci una considerazione adeguata nel tentativo di comprendere ciò che stiamo osservando. Oggetti del nostro quotidiano si tramutano in qualcosa di diverso da sé, assumono nuovi ruoli e nuovi aspetti, destabilizzandoci. Un’azione di natura dadaista, senza dubbio: irriverente, straniante e ironica, come solo un’opera Dada sa essere.

Impossibile non citare tra i possibili riferimenti artisti quali Duchamp o, ancor di più, Man Ray, e tutti gli artisti che hanno usato il fotomontaggio e la trasformazione dell’immagine fotografica con esiti che tendono alla surrealtà, che giocano con le nostre certezze sovvertendole, che si divertono con il dato reale stravolgendolo pur mantenendone la riconoscibilità.

 

Ma quelli di Iacopino non sono né fotomontaggi né operazioni in Photoshop. E proprio qui sta la vera originalità della ricerca di questo artista che non ha mai perso di vista la coerenza di un percorso ben calibrato e sempre molto pensato. Per le sue Chimere Iacopino prende la via della polimatericità, introducendo elementi tridimensionali, nella bidimensionalità dell’immagine fotografica. Sono materie che appartengono al suo mondo, presenti da sempre nella sua produzione artistica: rasi, velluti, fili da cucito e da ricamo. Nato nell’era della camera oscura, Iacopino ama ancora pensare alla fotografia come a qualcosa che ha a che fare con la chimica, con l’odore degli acidi, con la fisicità della carta stampata. Ecco quindi che la materia entra a gamba tesa nell’immagine, donandole valori tattili, irresistibili richiami sensoriali, quasi di ascendenza Munariana. Per le sue Chimere, Mimmo ripesca i propri scatti del passato, li riguarda con occhi nuovi, li trasforma, dandogli una nuova forma, un nuovo senso, una nuova vita. L’ironia lieve, mai aggressiva, trionfa in queste opere forti di un ostentato désengagement, surreali ma non inquietanti, che trovano la propria ragione di essere in questa risoluta volontà di opporsi alla memoria bidimensionale (come la definirebbe Ugo La Pietra) del digitale e aprire possibili orizzonti creativi per l’immagine fotografica, sottraendola all’effimera, frettolosa e inconsistente fruizione di cui oggi essa è costantemente vittima.

MISURA ALTRA

di Francesca Brambilla
(dal catalogo Mimmo Iacopino misure morbide, Galleria Melesi, ott-nov 2013)

Misure morbide. Titolo ed elemento caratterizzante della mostra, la “misura” di Iacopino (morbida) è una misura altra.
Non è una convenzione, una misura universalmente riconosciuta, una matematica operazione d’analisi: non indica, come nella geometria descrittiva, la dimensione lineare o angolare, come in metrologia il risultato dell’operazione di misurazione, né è la misura della musica, quel valore che indica un gruppo di note o pause comprese in una durata definita. Quella di Iacopino è una misura personale ed astratta. Una Misura morbida: delicata al tatto, cedevole a una leggera pressione, modellabile, plasmabile, sfumata, graduale, modulabile. Un “linguaggio” personale che diviene con l’atto stesso del fare.

 

La tavolozza di Iacopino è fatta di fili di rame, di mouliné in cotone, strisce di velluto, di raso, metri da sarto, di carta, da banco.
Decontestualizzati dal loro abituale campo d’esistenza i materiali diventano corpi morbidi e lucenti che disegnano profondità, proporzione ed equilibrio compositivo.
I metri da sarto o le bindelle non sono diversi da rasi o da velluti. L’artista non è interessato ai centimetri o ai millimetri scanditi sui metri, ma è il prodotto industriale che lo interessa, l’oggetto stesso e il ritmo intrinseco che ha.

Iniziata la sperimentazione dei centimetri da sarto intorno al 2000, si è appropriato delle misure con estrema naturalezza; il ritmo sincopato della texture si amalgama in un intreccio armonico con altri materiali, colori.

Spogliata la misurazione di tutti i suoi contenuti, dei suoi limiti e di tutta la relatività che gli sta intorno, i metri di Iacopino sono solo soggetto. Un soggetto che gradatamente diventa sempre più protagonista, tanto che in occasione delle due personali del 2002 e del 2003 è lo stesso conte Panza di Biumo ad accorgersi di Iacopino e delle sue “misure”. Entrati a far parte di una delle più prestigiose collezioni d’arte contemporanea, una decina di pezzi tra cui cubi e tele rigorosamente realizzate con centimetri da sarto e metri di carta colorata con pigmenti molto diluiti trovano la loro consacrazione.

 

Sempre più simboliche, quasi iconiche di un fare, le “misure” arrivano per caso, come forse per caso arrivano le intuizioni più geniali: l’artista stesso racconta senza inibizione come, entrato in un negozio di bricolage e trovatosi di fronte a una cascata di metri srotolati appesi ad una parete, abbia avuto una folgorazione letale. Attratto dall’oggetto in quanto tale, a interessarlo è la mera superficie che può essere lucida, opaca, plasticata, a volte di carta o di stoffa cerata.
La “misura” diventa sua: insignisce i metri di vesti nuove per riproporli con un significato altro, nella loro mera apparenza. Ecco allora centimetri da sarto gialli, bianchi, verdi, rossi, bindelle da rilievo bianche e nere. Isolati in alcuni quadri monocromi, i centimetri creano disegni suggestivi divenendo comunque, malgrado tutto, agli occhi di chi guarda, monumenti all’ordine, perché ordinata è l’armonia compositiva di Iacopino.

In Misure morbide per la prima volta assembla nello stesso quadro metri e nastri di velluto e raso. Diversi per morfologia e funzione i materiali coesistono, si valorizzano, si esaltano l’uno a contatto con l’altro. Decontestualizzati dal loro abituale campo d’esistenza diventano corpi morbidi e lucenti che disegnano profondità, proporzione ed equilibrio compositivo.
Attraverso il sottile gioco di incastri ed eleganti stratificazioni di masse colorate, all’alternanza di luci e ombre, fondamentali alla riuscita dell’opera, l’artista dà vita a una infinita produzione di complessi reticoli: “trama orditi”. La trama cambia, i fili si intrecciano, si intersecano, vengono ricomposti, metabolizzati, solo dopo numerosi passaggi l’opera può dirsi compiuta.

 

Con uno spiccato rigore “estetico” ereditato da un passato come fotografo di still life (ex Studio Azzurro) Iacopino conosce bene la luce e usa il suo sapere. Alterna superfici e texture differenti proprio per esaltare i giochi di luce ora assorbita ora riflessa. Naturale o artificiale, la luce diviene parte integrante dell’opera, valorizza il lavoro e ne enfatizza la plasticità.
Con la capacità di portare avanti più ricerche contemporaneamente, alterna forme, sviluppa idee, rielabora quelle già sperimentate, prosegue… Sia nella realizzazione delle raffinate tele monocrome o monotonali, che nelle più provocanti tele colorate, fatte di tinte diverse e contrastate, Iacopino agisce seguendo un progetto fatto di calcolo ma anche d’istinto, il risultato: il ritmo, il respiro, l’emozione del fare pittura.
Proposti per la prima volta nello stesso quadro nell’estate del 2012, misure e materiali morbidi (rasi e velluti) diventano l’epicentro della mostra, filo conduttore del misurarsi dell’artista con il proprio lavoro.

Sperimentati sotto forme e accostamenti differenti i metri si palesano in opere di grandi dimensioni come “Misure morbide Verticali”, bindelle intrecciate a velluti dai toni delicati, in “Totem”, colonna verticale alla quale si accompagnano piccole tele satellite tutte fatte di bindelle di differenti colori, “Metro cubo”, sculture a forma cubica e una numerosa e raffinata serie “Misure morbide” di opere di cm 10×10 o 15×15.

Oltre ai gioielli prodotti in esclusiva sotto forma di collane, a “rompere” l’equilibrio compositivo è “Misura morbida” (molle): costruita con rigore sul supporto della tela e appoggiatasi nella sua genesi al “limite” del telaio, l’opera è stata successivamente liberata dallo stesso telaio per palesarsi in tutta la sua tridimensionalità.

Riprodotta in catalogo di fianco a “Numero Uno” prima opera datata 2000 in cui l’artista sperimenta il centimetro da sarto come materia e colore, “Misura morbida” segna un passaggio, si libera del supporto. Diventa scultura, diviene oggetto, diviene ogni volta in modo diverso a seconda della forma e della superficie che la sostiene, diviene tessuto, stoffa, diviene molle… Diventa simbolo iniziatico nell’iconografia dell’artista, diventa un oltre, diventa il superamento di un limite, quello mentale: Misura morbida… libera… La libertà sta nell’azione: Iacopino ha agito!

 

Perché non dipingo? Provo a dirtelo, anche se la pittura è latente… Lavoro con materiali che spesso interagiscono con la luce, vedi il velluto, il raso, il rame, i metalli o le superfici specchianti, la mia ricerca è spesso orientata al rapporto con la luce che hanno questi materiali cangianti, poiché le opere acquistano profondità e cambiano nel momento in cui le si osserva e ci si sposta l’opera interagisce con lo spettatore, è quasi come se cercassi una sorta di chiaro scuro o la tridimensionalità nell’opera, che è tipica della fotografia. L’immagine fotografica di per sé è piatta, ed è intervenendo con la luce, con il chiaro scuro, che si dona ad essa la tridimensionalità, che è ancora poi quel che i padri pittori hanno fatto per secoli, studiando il rapporto con la luce e trasferendolo sulla tela. La fotografia ne è direttamente figlia. Nella mia ricerca c’è una sorta di pittura latente, o una fotografia latente, una pittura che non c’è, una fotografia che non c’è. Ne rimane una traccia una memoria, quasi una nostalgia. Il pennello del pittore non è il mio strumento, o almeno non lo è più…

 

Mimmo Iacopino