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Appunti

Fabrizio Dusi

(NON) C’ERAVAMO TANTO AMATI di Chiara Gatti
(dal catalogo Fabrizio Dusi Classic Lovers, Galleria Melesi, nov 2015–gen 2016)

«Il momento più bello delle feste è quando si resta soli a sparlare»
da La famiglia di Ettore Scola, 1987

L’opera di Fabrizio Dusi ha qualcosa di cinematografico. Un po’ per i temi che tratta. Rapporti di coppia, rapporti familiari, incomunicabilità, amore e contrasti, tipici di una certa commedia italiana degli anni Ottanta e, insieme, anche di quelle americane, alla Woody Allen. Un po’ per l’inquadratura che usa. Zoomando sulle figure, sui loro volti, dentro la scena, dentro le parole; persino quando le parole non ci sono e sembrano eterni fermo-immagine. Eterni silenzi. «Amo ambientare le mie storie in spazi angusti. Non faccio film d’azione; stare in un ambiente chiuso mi permette di stare addosso ai miei personaggi e a quello che pensano» ha ripetuto spesso il grande Ettore Scola che, non a caso, al tema della famiglia, ha dedicato una pellicola straordinaria.

Dusi, allo stesso modo, ama “stare addosso” alle sue comparse senza segni particolari, immagini allegoriche di una vita sociale spremuta nel contesto circoscritto del gruppo. Un gruppo di studenti. Un gruppo di impiegati, con giacca e cravatta annodata stretta. Un gruppo di famiglia (appunto) che si stringe dentro l’obiettivo di una macchina da presa, nel tondo di un mirino, per una foto che li immortali sorridenti. Mica tanto. Non ridono mai gli uomini di Dusi. E chiediamoci perché.

Paragonare il suo lavoro a quello di Keith Haring, l’artista pop della New York underground – come ha fatto molta critica in questi anni – è giusto, ma Dusi ha un retroterra culturale italiano, che non sposa soltanto la cultura della strada, il graffitismo under-road della metropoli massmediatica. Il suo linguaggio popolare ha un substrato colto, che viene da lontano. Cita la grande letteratura del ritratto familiare e la trasporta in una dimensione di espressione contemporanea, inzuppata di tutta quella inquietudine e di quei temi esistenziali che appartengono alla storia della pittura europea, da sempre. L’impostazione classica dice tutto. La frontalità, il mezzo busto, il profilo sono un omaggio alla costruzione rinascimentale del ritratto cortese e alla sua ripresa in tempi moderni. Dalle “dame” dei fratelli Pollaiolo, avanti fino alle effigi neoclassiche di Andrea Appiani. Lo schema triangolare, la proiezione delle figure in primo piano, la linea del contorno che le ritaglia su un fondale piatto, sono dettagli di una tradizione digerita e assimilata nella memoria. Vengono in mente le quadrerie blasonate di avi e trisavoli che affollavano le stanze dei principi Borromeo.

Le “classic family” di Dusi sono la risposta odierna, tragicamente ironica, al Ritratto di Claude Petiet con i figli di Appiani alla Gam di Milano. Estremo? Forse. Ma è uno specchio esatto e coerente di una istituzione, di un nucleo sociale modificato nel tempo.

All’epoca, la pittura artificiosa e retorica valorizzava l’eleganza e il prestigio nobiliare, attraverso scene di un sentimentalismo affettato. Oggi, Dusi indaga le dinamiche domestiche con lo stesso ritmo narrativo, ma con una riflessione acre sulle distanze che ci uniscono.

La tecnica della ceramica, i suoi passaggi lenti, il mestiere che concede minimi margini d’errore, è complice in un processo di ricerca graduale della verità, di un senso profondo da iniettare nella terra cruda. Fausto Melotti – signore della ceramica del Novecento – diceva che «la materia è un’aggiunta lirica all’idea» e che «la modellazione non ha importanza, ma la modulazione». Si riferiva all’abilità delle mani di frizionare l’argilla con delicatezza e coscienza. Alla capacità dell’artista di trasferire l’idea stessa nell’opera, facendola scorrere nelle dita, antenne di un pensiero da trasmettere. La ceramica come forma di meditazione affascinava il maestro dei “teatrini”, quanto ora affascina Dusi. Che nasce ceramista, ma è soprattutto uno scultore. E qui si capisce la differenza fra “modellazione” e “modulazione”. La disciplina artigianale fornisce le regole, i codici utili alla conquista del primo livello: the hand in the matter. Ma è solo la vocazione estetica, il sesto senso per la composizione – che vuol dire equilibrio, battito, misura – a garantire l’approdo a quella modulazione perfetta cui si riferiva Melotti. E che Dusi piega con garbo verso un ritratto della nostra collettività, visto da dentro. Standogli addosso. Ecco allora, da un lato, l’origine accademica della sua ricerca, fatta di cultura decorativa e di sapienza tecnica. Dall’altro il fattore umano, l’elemento quotidiano, la radiografia acuta di situazioni all’ordine del giorno, che orbitano intorno al nucleo sociale per eccellenza, ai legami di sangue, ai legami d’amore.

Già, l’amore. Tornando a Scola e al suo ultimo, indimenticabile Vittorio Gassman: «l’amore è come la tosse, non si può nascondere». Non stupisce che Dusi abbia iniziato, anni fa, a raccontare storie di dialoghi impossibili, riempiendo le bocche dei suoi personaggi con bolle colorate galleggianti nell’aria come pensieri in sospensione. Una tosse di parole effervescenti, sproloqui di ragazzi in t-shirt e di contabili della working class. Parole che poi sono diventate improvvisamente mute, nelle gole secche dei suoi anti-eroi attoniti. Grandi ugole aperte respiravano il vuoto pneumatico di una conversazione a senso unico. Gli uomini di Dusi – guarda caso – non hanno le orecchie. Parlano e non ascoltano. Ma se amore significa attenzione, viene da chiedersi se si siano, davvero, mai amati. O se fossero, piuttosto, relazioni autoreferenziali.

Opere Fabrizio Dusi
presentazione del lavoro di Fabrizio Dusi a cura di Chiara Gatti

Su alte colonne totemiche, che Dusi ha issato come fortezze del nostro isolamento, si affolla un popolo di urlatori afoni. Un vociare strozzato evoca l’atmosfera di un genetliaco caotico dove, sporadicamente, qualcuno prova a sottrassi al brusio del gruppo e ad alzare il volume, in un urlo supplichevole. «Listen to me. Talk to me». Ascoltami. Parlami! Il contrasto fra il dramma opaco che aleggia in sottofondo e la lucentezza degli smalti che brillano sulla superficie della ceramica, crea un cortocircuito sensoriale. È come la risata amara di Allen sulle ferite scoperte della famiglia newyorchese. Ancora cinema. Leggendo i dialoghi ossessivi che Dusi trascrive in riccioli di terra cruda (quanto sarebbero piaciuti i riccioli a Melotti!), vengono in mente le sceneggiature balbettanti, incespicanti, contraddittorie di Io e Annie, Hannah e le sue sorelle, Un’altra donna. Sedici volte «NO» e un unico, definitivo, luminescente «SI» elettrico, come il neon che si accende nel buio. Sembra l’insegna di una drogheria dell’East Side. Dusi gioca con il tubo luminoso arrotolandolo come fa con la ceramica. Nel ritmo assillante, maniacale, delle sue risposte lapidarie, si innesta il seme del dubbio. «MAYBE», forse, dice a conclusione di un ragionamento sintetico. Il messaggio è ridotto ai minimi termini, ma il senso si comprende benissimo: la verità non esiste, tutto è relativo. «Maybe love is the only answer», forse l’amore è l’unica risposta, chiosava Woody dopo anni di paranoie psicanalitiche.

Dusi usa la ceramica, come Ben Vautier usava il pennello sgocciolante sulle sue tele nere, per scrivere in corsivo dichiarazioni, sentenze aperte alle più diverse interpretazioni, ma che spesso riguardano proprio l’amore. L’amore in senso classico, cui allude il titolo Classic Lovers. Ma, naturalmente, anche il vocabolo “classico” è molto relativo. E il dubbio persiste. Fra le famiglie immortalate nei tondi, le silhouette di personaggi in “tubi” di smalto colorati e le addizioni coi simboli algebrici sostituiti da quelli archetipici e biologici, risulta chiara l’evoluzione del concetto tradizionale di famiglia borghese.

Con leggerezza calviniana, Dusi affronta un argomento importante: le trasformazioni del nucleo familiare contemporaneo che, lungi dall’essere un’entità stabile e definibile in termini assoluti, è un fenomeno bio-sociale cangiante. Le tipologie di famiglie sono tante quante sono le variabili dell’amore. Verso il prossimo e verso i figli.

Sotto l’astro dorato di un invito a godere dell’attimo – «Enjoy» stilla dalla bocca di un suo maschio angelico – prende vita una commedia dell’umana esistenza che parla di grandi affetti, ma anche di grandi incomprensioni. «I try to talk to you» recita la scritta sulla maglia di un single vagamente contrito. Sto cercando di parlarti. È un sibilo, una preghiera, una richiesta disperata. Il palloncino fluttua attaccato alle labbra come una nuvola di vapore o una bolla di chewingum.

Lui, lei, loro. Lei, lui, l’altro. La coppia, il triangolo, la famiglia allargata, i figli adottivi, l’amante, il compagno, il solitario. Tutti insieme appassionatamente. La quadreria di Dusi è un inno alla libertà, dagli stereotipi, dall’omologazione, dall’ipocrisia. Ma non necessariamente, purtroppo, l’amore libero è un amore che ascolta. E, infatti, le relazioni continuano a essere tese e le bocche drasticamente vuote. Parlano, parlano, parlano, senza dirsi niente. Ancora una volta, la preziosità dell’oro che tinge gli attributi sessuali di coniugi etero, oppure no – sventolati come gingilli del potere – stride malinconicamente con l’attrito che inquina la scena. Odio e amore, «LOVE» and «HATE» riporta un’ultima epigrafe concisa. Problemi di coppia? Dusi psicanalizza il suo popolo pop con la grazia che gli appartiene, modulando (e non solo modellando…) i toni di un piccolo poema d’amore incompreso. Che, forse, potrebbe risplendere di nuova luce (al neon) se una scintilla lo risvegliasse. Chissà. Maybe!

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