Fu sino alla fine degli anni 80, quando lavoravo sul tempo accostando un’immagine all’altra, che cominciai a concentrare i segni del mio territorio come in una tavola ritrovata nella memoria.
Era un concettualismo lirico che voleva parlare in modo individuale del mio ambiente, attraverso segni che facevano parte di me. Così mi accorsi che avevo compiuto un viaggio a ritroso nella stessa genesi della scrittura. Volevo poi decisamente staccarmi dell’asetticità dell’immagine di territorio partendo da una materia per giungere concettualmente alla sua immaterialità o, per dirla con Calvino, “leggerezza”.
Proprio in quegli anni iniziavo ad esprimermi attraverso gli interfotogrammi, più istintuali, in cui veniva messa in discussione la progettualità in nome di una casualità di ripresa che ridava senso al mezzo, all’occhio tecnologico.